You are fired! Questo era l’esclamazione che sanciva l’eliminazione dal popolare reality show della BBC “The Apprentice” co prodotto da….Donald Trump. Nel gioco gruppo di aspiranti uomini d'affari competeva per un posto in una compagnia di proprietà dell'ospite, solitamente Donald Trump stesso. I concorrenti affrontavano sfide manageriali settimanali, divise in squadre, e il vincitore della sfida era determinato dal profitto o dal successo dell'obiettivo. Nulla di diverso da quanto sta accadendo nello studio Ovale, e questa settimana il concorrente sulla graticola ha un nome illustre: il governatore della FED Jeorme Powell. Cercheremo di capire perché potrebbe essere una eliminazione dolorosa e rischiosa per l’intera “produzione” chiamata Stati Uniti d’America. Dopo la settimana più folle degli ultimi anni dal Covid, il mercato sembra essersi preso una boccata di respiro complici anche i meeting delle banche centrali e le parziali aperture da parti di Donald Trump sui negoziati aperti con tutto il mondo. Guardando però più da vicino si nota che lo sfibramento del mercato americano, rispetto a quello europeo, inizia ad essere evidente con i flussi che sembrano abbandonare il “sogno gree del dollaro americano” per il “sogno green della burocrazia europea”.
European dream?
Dall’altra parte dell’Atlantico, il “sogno americano” sembra essersi incrinato: mentre per un secolo gli europei hanno cercato fortuna negli Stati Uniti, oggi oltre un quinto degli americani dichiara di voler abbandonare il Paese, rispetto al 10 % del 2011. Questo sentimento di sfiducia, già in crescita prima dell’era Trump, traduce un disagio economico e sociale profondo, che si riflette nel confronto con il Vecchio Continente. Nel 2023, il reddito pro capite in parità di potere d’acquisto (PPP) dell’area euro ha toccato circa il 72 % di quello statunitense. Pur percependo stipendi mediamente più bassi, molti europei godono di un tenore di vita più sostenibile grazie a costi di beni e servizi inferiori: il sistema sanitario continentale “copre” automaticamente ogni cittadino, mentre negli Stati Uniti il premio medio per un’assicurazione familiare supera ormai i 25.500 $ all’anno, una spesa che in molti casi supera il reddito netto di intere famiglie. Questa differenza si riflette anche nell’aspettativa di vita, che negli Stati Uniti si attesta a 79,3 anni contro una media OCSE di 81,5 anni, e nella pressione lavorativa: un americano medio dedica alle attività professionali 1.811 ore l’anno, circa il 15 % in più rispetto al lavoratore europeo, il che si traduce in minore tempo libero e maggior stress. Lo stile di vita americano – dominato dall’auto, dal cibo processato e da ritmi frenetici – appare anche sul bilancio della salute pubblica: il tasso di obesità negli Stati Uniti supera il 40 % della popolazione adulta, quasi il doppio rispetto all’Europa occidentale (intorno al 18 %). E non è solo una questione individuale, ma anche ambientale: ogni cittadino statunitense genera in media 13,8 tonnellate di CO₂ all’anno, contro le 6,5 tonnellate pro capite dell’UE-27. Sul versante dei conti pubblici, inoltre, gli Stati Uniti viaggiano verso un rapporto debito/PIL superiore al 123 %, mentre l’area euro rimane intorno all’88 %. Nonostante gli sforzi per stimolare la crescita, il risultato è un sistema finanziario solido ma meno generoso nei confronti della maggior parte della popolazione. Per tutti questi motivi, l’Europa offre un vantaggio competitivo in termini di benessere reale: case e istruzione a costi più contenuti, un’assistenza sanitaria universale, giorni lavorativi più corti e una qualità dell’aria migliore. Chi ha la possibilità di esercitare un “arbitraggio geografico” – guadagnando in dollari mentre vive in paesi mediterranei – lo sta già facendo; ma anche per chi non può permettersi questo lusso, trasferirsi oltreoceano può significare, più che un cambiamento di residenza, un vero salto di qualità nella vita quotidiana. In un mondo dove la ricchezza non è più sufficiente da sola a garantire felicità e sicurezza, il “sogno europeo” si presenta come la nuova meta di chi cerca stabilità, salute e equilibrio. Madama Lagarde taglia e Jerome rischia il posto La Banca centrale europea ha deciso, il 17 aprile 2025, di abbassare nuovamente il tasso principale di 25 punti base, portandolo a 2,25 %: si tratta del settimo taglio in meno di un anno (dall’1 luglio 2024), per un totale di –1,75 punti percentuali dal picco del 4 %. La decisione è stata approvata all’unanimità dal Consiglio direttivo, spinto dall’aumento delle “incertezze eccezionali” e dai rischi al ribasso sulla crescita, provocati dalle annunciate – e poi sospese per 90 giorni – misure tariffarie di Washington. Nonostante la morsa protezionistica, l’inflazione nell’area euro si mantiene vicina al target: il tasso tendenziale è rallentato a 2,2 % a marzo (da 2,3 % di febbraio) e le componenti “core” e dei servizi continuano a decelerare, segno che il processo di disinflazione, trainato dal calo dei prezzi energetici, è tuttora in corso. Tuttavia, l’effetto delle tensioni commerciali – con dazi fino al 20 %-25 % su circa 20,9 miliardi € di merci UE – rimane un’incognita per consumi e investimenti, come sottolineato dalla presidente Lagarde. Le borse europee hanno sofferto: l’Euro Stoxx 50 ha segnato un calo del 12 % dopo l’annuncio dei dazi, per poi rimbalzare del 6 % circa con la sospensione, mentre il cambio euro/dollaro si è indebolito di 0,5 % nell’immediato. I rendimenti dei titoli di Stato tedeschi a 2 anni sono rimasti stabili intorno all’1,75 %, riflettendo il mix di toni più accomodanti e di persistenti rischi geopolitici. Negli Stati Uniti, il Federal Open Market Committee ha lasciato il target per i federal funds al 4,25– 4,50 % nelle sue riunioni di gennaio e marzo 2025 dato che l’inflazione core si è attestata al 3,0 % annuo a marzo e le aspettative di inflazione a un anno dei consumatori sono balzate al 6,7 %, un picco da inizio anni ’80. Questo fare certosino di Powell da ragioniere grigio e pignolo che tarpa le ali del Caligola di Mar-a-lago (copyright a Dagospia), ha destato scompiglio nello studio Ovale. Trump infatti si sta alacramente adoperando per trovare il modo per licenziare, in caso di perdurata insubordinazione, il presidente della Fed (https://www.reuters.com/world/us/trumpwill-study-whether-fire-fed-chair-powell-adviser-says-2025-04-18/). Cosa c’è di male se viene licenziato un ennesimo funzionario con il posto fisso? C’è di male che la reazione del day-after dazi potrebbe essere una goccia nell’oceano. Le banche centrali di tutto il mondo possono fare il loro lavoro grazie ad una sola ed unica cosa (non stiamo parlando della gentile concessione di Trump) la fiducia. In particolare, la fiducia nella loro indipendenza nell’operare per perseguire il proprio mandato a discapito dell’indirizzo politico di turno. Quella è la vera bussola che tiene tutto in piedi e da valore alle nostre banconote che, altrimenti, sarebbero solo dei pezzi di carta dal misero valore nominale. Le banche centrali hanno diversi obiettivi dichiarati: la BCE ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi (per questo la Lagarde è cosi ossessionata dal carrello della spesa). La FED ha maggiore discrezionalità perché ha due obiettivi: La stabilità dei prezzi e la piena occupazione. Tutti i governatori muovo i tassi in funzione da quanto sono vicini o lontani dall’obiettivo dichiarato, tutto qui il lavoro dei banchieri centrali. In tutto questo la politica non deve poter mettere becco, pena appunto la caduta totale della credibilità nella capacità della banca centrale di perseguire i suoi obiettivi, e pena la crisi di fiducia nella moneta che stampa la banca centrale. Questa lezione Trump sembra non averla seguita in passato, e infatti è tornato a parlare di sostituire Powell prima della fine del suo mandato (proprio come minacciò durante il primo governo Trump). Ovviamente al momento è solo una minaccia, ma questo atteggiamento continua a minare la credibilità del mercato americano e favorisce i flussi in uscita verso il vecchio continente.
Mentre Trump gioca a Monopoli in Italia si gioca al risiko
Per chi ha seguito le puntate precedenti, abbiamo più volte accennato al risiko bancario in corso in Italia. Il sistema finanziario in Italia è al momento in fermentazione più di un pregiato metodo classico e il mese di aprile/maggio svelerà molte carte. Provando a sintetizzare banalizzando abbiamo: Unicredit che sta cercando di comprare Banco BPM in Italia, Commerzbank in Germania e ha una posizione rilevante in Generali. Unipol sta cercando di comprare Banca Popolare di Sondrio tramite BPER Banca. Banca MPS sta cercando di comprare Mediobanca e Intesa (al momento) sta a guardare la rissa che si sta definendo. Nei mesi di aprile/maggio ci saranno però le assemblee delle varie società, e qui si dovrà venire allo scoperto. La prima è stata MPS che ha approvato con quasi la totalità dei presenti l’OPS (offerta pubblica di scambio) su Mediobanca per creare il famoso terzo polo bancario italiano (o almeno è quello che dicono). Ora toccherà all’assemblea di Mediobanca accettare o meno l’offerta, assemblea che si preannuncia di fuoco perché i soci storici di Mediobanca poco ci stanno a finire sotto le grinfie di Rocca Salimbeni. Ma perché interessa tanto Mediobanca? Una brand storico si, una serie di bellissimi immobili a Milano si, ma soprattutto le azioni che controllano il forziere d’Italia: Generali. Mediobanca da anni detiene una partecipazione rilevante in Generali che ne assicura lauti dividendi. Le prossime due settimane con le assemblee di Generali e Mediobanca diventano cruciali per definire il nuovo assetto finanziario (e politico) degli istituti di credito italiano. La fiducia non vale solo per le banche centrali Cosa rende un borsa di Hermes, una borsa di Hermes? O cosa permette ad un Rolex di avere un prezzo X volte superiore ad un altro orologio automatico made in Swiss? E cosa permette ai brand del lusso mondiale di marginare cifre da capogiro? La fiducia nel Brand! L’esclusività del Brand. La riconoscibilità e soprattutto la desiderabilità (E diciamolo l’invidia) che genera in chi non può averlo. Ma se un giorno si scoprisse che il “mark up” del 2000% sui prodotti di lusso è solo frutto di una convenzione sociale che trascende dal valore di produzione? E se, peggio ancora, i produttori di quei beni non sono abili artigiani italiani/francesi che cuciono le borse solo nelle notti di luna piena con una temperatura di 28,4° e una umidità del 13,4048% ascoltando un inedito di Bach? Succede che si perdono i margini che si sono sempre fatti! La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina si è spostata ormai dai piani tariffari ai social media, con Pechino che ha lanciato su TikTok una campagna virale sotto l’hashtag “China Manufactures” in risposta ai dazi fino al 245 % annunciati da Washington lo scorso 2 aprile. Su una piattaforma che conta oltre 2 miliardi di utenti mensili nel mondo e 136 milioni solo negli USA , digitare “China” restituisce come primo suggerimento “China Manufactures”, e #china totalizza quasi 198 miliardi di visualizzazioni in una sola settimana (https://www.instagram.com/p/DIdyr98snuw/?img_index=7&igsh=eTNnOHlua3hibmQ0)
In centinaia di video, artigiani mostrano come assemblano borse, cinture e sneakers con costi di produzione di circa 1.395 $ a fronte di un prezzo di vendita al dettaglio di 38 000 $ (un markup di oltre 27×), sostenendo che i consumatori pagano solo il marchio e non la qualità. Sebbene esperti del settore – fra cui Luca Solca di Bernstein – confermino che si tratti di contraffazioni realizzate con cura, il messaggio erode la reputazione dei brand occidentali e cavalca un mercato globale dei falsi che l’OECD stima valga 464 miliardi $ nel 2019, destinato a crescere fino a 1,79 trilioni $ entro il 2030 (+75 % dal 2023) . La Cina, che nel 2023 ha esportato abbigliamento per 164 miliardi $ (31,6 % del totale mondiale), sfrutta il ruolo di super-hub manifatturiero per sfidare l’Occidente nel cuore delle sue catene del valore. L’uso strategico di TikTok, veicolo diretto verso milioni di consumatori, dimostra come la lotta sui costi proibitivi delle merci possa trasformarsi in un contrattacco alla credibilità e all’esclusività dei grandi marchi, costringendoli a rafforzare filiere, controlli di qualità e strategie di protezione del brand in un contesto di tensioni commerciali senza precedenti. La cosa bella di questa storia che non c’è bisogna che sia vera! Come sul sentito dire e sul raccontato una borsa di Hermes acquista il valore di mercato di 20 000 euro, così sul sentito dire e sul raccontato può perderlo.
Operativamente
La volatilità dei mercati è tutt’altro che assopita ma ha solo preso un breve sospiro. Il mercato americano risulta ancora debole e troppo legato ai tweet di Trump e ai deflussi a favore del mercato europeo. Per tornare ad essere costruttivi su S&P500 e Nasdaq in maniera strategica (al contrario del trading che invece è possibile fare su questi indici con risultati interessanti) c’è bisogno di avere maggiore chiarezza sulle intenzioni di Trump sui seguenti temi: dazi, licenziamento di Powell, posizione nei confronti della Cina, stato della legge per la riduzione delle corporate tax e se alla Meloni ha detto che preferisce la carbonara o la matriciana. Nel frattempo meglio Europa che Stati Uniti. Meglio Banche/Utilities che Lusso e Consumer. Meglio Bund che Treasury. E sui corporate bond in generale, spread ancora troppo stretti per andare convinti.